La mindfulness è uno stato di attenzione consapevole e non giudicante che può essere appreso attraverso una serie di pratiche laiche di esercizio della consapevolezza ispirate a tradizioni contemplative.

Il termine “mindfulness” è stato utilizzato per la prima volta nel 1881 da Thomas Davids, indianista e profondo conoscitore del buddismo. La parola “mindfulness” è diventata famosa grazie al lavoro del medico americano Jon Kabat-Zinn che per la prima volta ha studiato gli effetti degli esercizi meditativi sullo stress e sul benessere delle persone.

Ad oggi, una mole consistente di studi conferma il potenziale curativo della mindfulness, utile a sostenere il benessere delle persone e ad alleviare la sintomatologia di numerosi disturbi. Essa può essere applicata tanto in contesti di promozione della salute quanto in contesti clinici, sia individuali che gruppali.

Alcuni studiosi hanno proposto di distinguere le pratiche di Mindfulness in tre tipologie: le pratiche di regolazione dell’attenzione, le pratiche di regolazione delle emozioni e le pratiche di regolazione del Sé.

Nelle pratiche di regolazione dell’attenzione si fanno rientrare:

  • gli esercizi di focused meditation, che prevedono di focalizzare l’attenzione su un elemento specifico, ad esempio il respiro;
  • e l’open monitoring, in cui l’attenzione si estende all’intero flusso delle percezioni, dei pensieri e delle emozioni che fluiscono nella mente del praticante.

Tra le pratiche che intervengono sulla regolazione emozionale riconosciamo:

  • il cognitive reappraisal, la capacità di modificare il modo in cui situazioni ed eventi vengono interpretati, riattribuendo loro significati più funzionali al benessere della persona.

In ultimo, le pratiche che hanno a che fare con la regolazione del Sé muovono nella direzione di una progressiva dis-identificazione con un sé statico che causa malessere individuale.

Tutti questi elementi si sono rivelati estremamente utili nell’ambito di un intervento psicoterapico, tant’è che la mindfulness viene utilizzata sempre più nella clinica.
Con gli approcci terapeutici che si avvalgono della mindfulness è possibile intervenire su alcuni degli elementi che caratterizzano la sofferenza mentale:

  • Scarsa consapevolezza della sfera emotiva;
  • Rapporto problematico con la propria esperienza interna;
  • Evitamento esperienziale.

In che modo?

L’approccio è decisamente controintuitivo e mira a smontare il paradosso per cui più si cerca di evitare un pensiero negativo, più questo si ripropone alla mente con insistenza e prepotenza.
La pratica mindfulness favorisce l’accettazione non giudicante di pensieri, percezioni ed emozioni, come flusso di cose che accadono, che come arrivano vanno via. Essa permette di “percepire, vedere in modo immediato, diretto, spesso improvviso e in piena evidenza ciò che era già nella nostra esperienza, e anzi la influenzava, ma che fino a quel momento non era presente alla coscienza.”

Questa potenzialità della mindfulness è evidente anche a livello neurofunzionale. Infatti, sebbene quando si pratica mindfulness si registra l’attivazione di diverse aree cerebrali, si osserva anche una progressiva disattivazione del Default Mode Network, la rete coinvolta nel mind-wondering, il dialogo autoreferenziale che abbiamo con noi stessi quando non siamo coinvolti in compiti cognitivi.

Che cosa succede quando si disattiva il Default Mode Network?

Quando si disattiva il Default Mode Network si interrompe la sovrapposizione inconsapevole della nostra mente che interferisce continuamente con la realtà interna ed esterna e si avvia il fluorishing, ovvero l’esperienza ottimale di funzionamento personale.

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