Dobbiamo ricordare che essere una coppia gay o lesbica significa appartenere ad un gruppo minoritario ed ancora, nonostante alcune importanti conquiste sul piano dei diritti civili, socialmente stigmatizzato. Il semplice fatto di appartenere a questo gruppo mette le coppie omosessuali di fronte a delle sfide, come ad esempio il fatto di decidere se e a chi svelare il proprio legame, e di conseguenza il proprio orientamento sessuale. D’altronde un altro fattore chiave è che all’interno delle coppie gay o lesbiche possono esserci differenze già rispetto alla definizione identitaria: una persona nella coppia può essere a suo agio nel chiamarsi gay o lesbica mentre l’altra no. Dal tema dell’identità e della visibilità dipendono poi le opzioni di progettualità e generatività della coppia. In particolare la possibile genitorialità rappresenta oggi un nodo fondamentale. La coppia gay o lesbica, pur avendo le stesse capacità genitoriali di una coppia eterosessuale, si trova in una posizione completamente diversa e particolare.
Se è pur vero che molte coppie giungono in consultazione con il bisogno più o meno esplicito di lavorare su queste premesse, cosa che rende la terapia con le coppie omosessuali una sfida particolare, non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’atteggiamento corretto è quello di osservare le dinamiche della coppia a prescindere dall’orientamento sessuale. Come sempre accade con tutte le coppie, e non solo, nel nostro lavoro la sfida per una buona prassi, è quella di non tralasciare la specificità di chi abbiamo davanti, senza cadere negli stereotipi della categorizzazione, né perdere d’occhio i comuni processi di coppia. Viene da sé la necessità di tenere in conto ciò che queste coppie rappresentano da un punto di vista sociale e avere in mente quali possono esserne le specificità dovendo affrontare ogni giorno la consapevolezza di appartenere ad un gruppo sessuale minoritario. Dunque la faccenda si complica notevolmente. Ma perché?
Ogni terapeuta di coppia deve monitorare i propri pregiudizi, anche legati alla formazione psicologica, per esempio rispetto ai ruoli di genere. Nel porsi di fronte a queste coppie, deve essere consapevole dei modelli di riferimento che ha costruito a partire tanto dagli eventi della propria vita che dal lavoro svolto nel proprio percorso formativo. Una serie di immagini che fanno riferimento a quello che può essere per lui il genere di un uomo e di una donna, immagini che derivano dal proprio background, dalla propria esperienza culturale e personale e dal modello teorico di riferimento. Tutto ciò, inevitabilmente, mette il terapeuta in una posizione “di parte”, che deve essere oggetto di riflessione continua.
A questo dobbiamo aggiungere una riflessione sulla generatività, che è distinta dalla genitorialità e che, diversamente da quest’ultima, è un elemento fisiologico di tutte le coppie. La generatività è la dimensione psicologica del bisogno di sopravvivere a se stessi, produrre valore e prendersi cura delle generazioni successive. Erikson parlava di 3 tipi di generatività: quella biologica della procreazione, quella genitoriale del crescere i propri figli e quella sociale del fare del bene per la comunità estesa e futura. Oggi si ha la tendenza, legata anche al paradigma psicoanalitico, a considerare e ridurre la generatività alla dimensione psicologica e simbolica della procreazione, ma la genitorialità è solo una delle forme di generatività. Ogni coppia nella sua progettualità affronta la sfida della generatività, ma solo alcune trovano la risposta nella genitorialità.
La genitorialità a sua volta deve essere distinta dalla procreazione, perché essa rappresenta una relazione identitaria tra genitore e figli: chi è genitore assume al centro della propria definizione di sé la responsabilità della funzione genitoriale verso il figlio, cioè la responsabilità di mettere in atto ciò che è necessario per rispondere ai suoi bisogni (questa è appunto la funzione genitoriale). Le coppie omogenitoriali sviluppano dunque questa identità genitoriale e si assumono la responsabilità verso i figli della funzione genitoriale nella sua interezza, negoziandone al proprio interno la condivisione, visto che non possono appoggiarsi sulla spartizione convenzionale tra ruolo materno e paterno. Quarant’anni di ricerca scientifica hanno provato che questo è possibile, poiché i bambini crescono nelle coppie omogenitoriali senza mancanze o sofferenze particolari e ciò prova che l’intera gamma delle funzioni genitoriali può essere ricoperta da una coppia dello stesso sesso come nelle coppie eterosessuali.
Ci sono alcune sfide specifiche che queste famiglie devono però affrontare, e ancora una volta esse riguardano in massima parte il contesto sociale. Per cominciare, se l’adozione in Italia non è ancora consentita, una sfida è già quella relativa al concepimento, che spesso si traduce in un lungo percorso sia temporale che geografico. Quando poi i figli arrivano, spesso, l’identità genitoriale si instaura a prescindere dal legame biologico della procreazione, ma vista l’importanza e il privilegio che la società riconosce a questo legame queste coppie devono comunque rendere conto della sua esistenza asimmetrica rispetto ai membri della coppia. La società, che tende a “naturalizzare” i ruoli paterni e materni, già nella sua struttura istituzionale riconosce come genitore per lo più quello biologico, faticando a tutelare la bigenitorialità delle coppie omosessuali. Nella parte maschile si aggiunge il confronto costante con la mitizzazione della funzione materna, con un effetto spesso svalutante verso i padri gay, che in quanto uomini sono spesso visti come non in grado di prendersi cura dei figli piccoli. Nel caso femminile, invece, la difficoltà maggiore è la garanzia che la legge offre alla paternità biologica e che spinge molte madri lesbiche ad optare per un donatore anonimo. Accanto alla procreazione medicalmente assistita (da attuare all’estero), un’altra possibilità, poco diffusa in Italia, è la co-genitorialità allargata, cioè la presenza di una coppia e un singolo, oppure di due coppie che in accordo hanno un figlio che è biologicamente di uno dei due di ogni coppia, così che il figlio finisce per identificare più di un genitore. In questo caso la sfida è quella della negoziazione all’interno della comunità di accudimento, che può talvolta essere molto complessa.
Molto altro andrebbe detto sugli specifici compiti di sviluppo dei figli, che investono i genitori come garanti del loro benessere. Tali compiti possono essere riassunti nel fatto di dover affrontare la complessità della crescita, che li accomuna a tutti gli altri bambini, rendendo conto allo stesso tempo della propria specificità familiare in un contesto che la connota spesso negativamente. I genitori gay e lesbiche hanno il compito faticoso di permettere ai propri figli di divenire cittadini attivi e fiduciosi in armonia con un contesto che spesso ancora diffida della loro esistenza.
Come professionisti, dunque, siamo chiamati ad entrare nel sistema terapeuta-coppia con uno sguardo aperto, capace di evitare le trappole del pregiudizio e della facile categorizzazione, e tuttavia muniti di competenze chiare, che ci permettano di rivolgere la nostra attenzione ai punti di attrito tra le famiglie di lesbiche e gay e il loro contesto di appartenenza. Solo in questo modo possiamo essere in grado di liberarne le risorse e di sostenerne la generatività.
Forse la sfida più grande è proprio quella di una co-generatività del sistema terapeuta-coppia che porti il terapeuta a sostenere le coppie gay e lesbiche nel loro bisogno di essere un luogo di generazione di valori, di vita e di cittadinanza.
Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari