DIpendenze patologiche: controllare l’incontrollabile, il paradosso che immobilizza

Chi, tra i molti operatori impegnati a vario titolo nel trattamento delle tossicodipendenze, non ha mai provato un profondo senso di frustrazione, di fallimento e di sostanziale inutilità del proprio sforzo? Chi non ha mai vissuto una sensazione di desolante fallimento resa, se possibile, ancor più intollerabile dalla presenza di un legame umano preesistente o andato a stringersi nel corso di lunghi percorsi terapeutici con il soggetto dipendente? Si tratta di un senso di sconfitta disperante reso particolarmente drammatico nel confrontarsi con le tossicodipendenze, dove ciò che è messo in costante rischio di annichilimento sono i progetti di vita della persona e la sicurezza sua e di chi gli sta attorno, quando non addirittura la sopravvivenza stessa dell’individuo. Una sconfitta, però, ugualmente amara e avvilente quando ci si trova a avere a che fare con tutte quelle dipendenze patologiche che non mettono la persona in un diretto e immediato pericolo di vita (come, ad esempio, lo shopping compulsivo, la pornografia, il gioco patologico o la dipendenza dai dispositivi elettronici), tutte quelle dipendenze, cioè, che si configurano come un comportamento la cui espressione sembra essere irresistibile per l’individuo nonostante i suoi numerosi sforzi per arginarlo. Intendendo, qui, con il termine “patologico”, il momento in cui il comportamento in oggetto comincia a influire negativamente sullo stato di salute fisica, psichica o sociale dell’individuo.

Dipendenza patologica e la richiesta di aiuto

Le persone afflitte da quella che percepiscono essere una dipendenza patologica esprimono una richiesta d’aiuto, rivolta in prima istanza a parenti e amici e solo in un secondo tempo a operatori dei Servizi e a altri professionisti, che si traduce nella necessità di essere sostenute e guidate nel controllo dell’espressione del comportamento ritenuto problematico. È così che la persona afflitta da un problema di dipendenza patologica diviene in breve tempo il nodo centrale di un complesso sistema di persone e Servizi coinvolte a diversi livelli nel sostegno allo sforzo della persona in direzione dell’astensione dall’espressione del comportamento problematico. Sia che la dipendenza sia percepita come l’indulgere in un comportamento vizioso, come la si concepiva un tempo, sia che sia percepita più come qualcosa che assomiglia a una malattia da curare, questi sistemi complessi si trovano impegnati nella regolazione di un mancato controllo nell’espressione degli impulsi. Vengono così a strutturarsi interi sistemi impegnati nello sviluppo di strategie di regolazione sempre più affinate da applicare a qualcosa che in definitiva sembra sempre sfuggire al controllo esercitato dalla persona e da chi si impegna nello sforzo con questa.

Il convinto tentativo di ideare incessantemente nuove strategie costruite ad hoc è un’attività estenuante, soprattutto a fronte di innumerevoli rovinose sconfitte. Logorati da questo sforzo senza soluzione, i familiari della persona dipendente spesso finiscono per perdere ogni speranza di cambiamento, lasciandosi andare alla rassegnazione. Dal canto loro, i Servizi si trovano nella necessità di coniugare l’impegno nello sviluppo di originali strategie di controllo degli impulsi con la standardizzazione di un modello di intervento replicabile che permetta una giusta economia delle risorse impiegate. Tali condizioni portano gli operatori dei Servizi dover fare i conti con continui vicoli ciechi e percorsi fallimentari da ricominciare da zero, con il comprensibile bagaglio, sempre più faticoso da portare, di frustrazione e di senso di inutilità del proprio operare. Dato l’entusiasmo necessario a impegnarsi nell’immaginare interventi individualizzati e costruiti sulla persona e la forse ancor più bruciante delusione di fronte ai ripetuti fallimenti a cui questo sforzo va incontro, un ovvio e non condannabile sistema di protezione degli operatori prende forma nell’applicazione di procedure standard che finiscono per venir replicate all’infinito, soggette solo a micro-aggiustamenti per farle calzare meglio alla persona in trattamento. Questo impoverimento dell’investimento emotivo da parte degli operatori è un meccanismo adattivo che permette loro di rallentare il presentarsi degli esiti più deleteri della sindrome da burnout, pur non riuscendo a evitarla in via definitiva.

La moderna percezione della dipendenza patologica

Rispetto a una più antiquata definizione della persona dipendente (per questioni storiche e culturali, principalmente ci si riferiva unicamente alla persona tossicodipendente) che la vedeva come un individuo che, per carenze nella propria struttura morale, si trovava maggiormente soggetto all’eventualità di cadere in tentazione di fronte all’eventualità di mettere in atto comportamenti viziosi e riprovevoli, la più moderna percezione della dipendenza patologica come qualcosa che si avvicina maggiormente a una malattia ha segnato un imprescindibile passo avanti che ha implicato una modifica anche nei presupposti degli interventi che è stato possibile immaginare. Se, fino a quando la dipendenza era percepita come una esecrabile disposizione al concedersi comportamenti viziosi, gli unici interventi immaginabili erano la punizione e la repressione, il nuovo paradigma che la percepisce come un disturbo che è causa di una fondamentale fragilità della persona di fronte al controllo dell’espressione di determinati impulsi ha permesso di immaginare interventi che non si risolvessero nella mera repressione, ma che prendessero in considerazione la cura di questa supposta fragilità.

Aiutare una persona a controllare l’espressione di impulsi incontenibili al fine di supplire a una sua debolezza interiore è un compito che prevede inevitabilmente (tautologicamente) che questa si impegni a mantenere l’astinenza dall’espressione di tali impulsi. Da questa prospettiva, questo è il presupposto per una buona collaborazione terapeutica. Ma questo presupposto porta in sé un paradosso che ne determina anche l’inevitabile fallimento. Contenere un impulso incontenibile, controllare l’incontrollabile, è una missione che condurrà necessariamente a una catastrofica disfatta. Immaginare una malattia caratterizzata da innumerevoli ricadute e dalla quale affrancarsi pare essere molto difficile ha portato a concettualizzare la dipendenza come una malattia cronica del cervello ad andamento recidivante. Una definizione che di per sé non permette molte prospettive di intervento, per gli operatori.

Alla base di questo paradosso, che sembra condannare qualunque intervento al fallimento, sta il presupposto di pensiero che esistano impulsi irresistibili ai quali è necessario sforzarsi di resistere. Figlia di questo presupposto è l’idea che un passaggio imprescindibile sia l’impegno a mantenere l’astinenza. Un’architettura di pensiero, questa, che, se, da una parte, ha l’innegabile merito di aver liberato la società dal sentirsi impegnata nella lotta a comportamenti devianti per permetterle di accostarsi alla sofferenza delle persone affette da dipendenza patologica, dall’altra porta anch’essa a conclusioni che non offrono alcuna via d’uscita. Ciò che, per certi versi, è stato una soluzione, per altri versi si rivela una prigione che intrappola il pensiero.

Il paradosso appena descritto è frutto di una logica lineare di pensiero, una logica che funziona secondo lo schema “se ‘X’, allora ‘Y’” (nel nostro caso: “se esistono impulsi irresistibili, allora è necessario trovare un modo per resistervi”). Abbandonare una logica di ragionamento lineare per abbracciarne una non lineare, circolare e complessa, permette di aprire a nuove letture di ciò con cui ci troviamo a confrontarci. Una visione complessa della realtà è qualcosa che solitamente spaventa, perché a prima vista sembra solo più complicata. A chi si trova a svolgere un lavoro tanto faticoso come quello descritto sopra, denso di delusioni emotivamente esasperanti, può sembrare folle la proposta di fare proprio un modello di pensiero che, aumentando gli elementi da includere nella propria lettura degli eventi, sembra solo aumentare il livello di confusione di qualcosa che appare già così com’è inestricabilmente ingarbugliato e confuso, andando a rappresentare una perdita di tempo in un impegno sottilmente percepito come sostanzialmente inutile. Ma rileggere la tossicodipendenza all’interno di una matrice complessa, vedendola come un comportamento dotato di senso, ci permette di inserire tale comportamento in una griglia di significato e di relazioni in grado di ri-significarlo, così da dare la possibilità agli operatori di decodificare più agevolmente comportamenti a prima vista incomprensibili e immaginare con minor dispendio di energie interventi di sempre maggiore efficacia. Accogliere una visione complessa delle dipendenze patologiche significa evitare il paradosso lineare che presuppone persone fragili, vittime di impulsi irresistibili ai quali è necessario trovare un sistema per resistere, per affrontare senza timore le implicazioni che comporta il prendere in considerazione l’ipotesi che la persona dipendente non sia necessariamente fragile e che la soluzione non passi necessariamente per il mantenimento dell’astinenza.

Master in Dipendenze patologiche

Marpa Crisciani, psicologo e autore dell’articolo di cui sopra, è il direttore scientifico del Master in dipendenze patologiche organizzato da Spazio IRIS. Tale Master si propone di fornire ai corsisti prospettive interpretative e strumenti utili al lavoro clinico al lavoro con soggetti affetti da problematiche di dipendenza da sostanze e/o comportamenti, focalizzando principalmente la riflessione sulle premesse implicite, personali e relazionali, che pongono le basi per lo svilupparsi di tali problematiche.

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