Training Self-Compassion per i disturbi da Binge Eating

Binge-eating significa abbuffata di cibo. Il disturbo è conosciuto con l’acronimo BED (Binge Eating Disorder) e viene diagnosticato quando gli episodi diventano ricorrenti, almeno 1 volta a settimana per 3 mesi. Nel BED, a differenza della bulimia nervosa, solitamente non vengono messi in atto comportamenti compensatori per il controllo del peso. È il disturbo del comportamento alimentare più frequente, 3.5% delle donne contro il 2% degli uomini. Sebbene siano soprattutto le donne a soffrire del disturbo, è il disturbo alimentare maggiormente riscontrato nella categoria maschile, con una percentuale del 40% in più, con un picco nella prima età adulta. Secondo i dati raccolti dall’OMS nel 2017 il 20% della popolazione di persone che soffrono di obesità (670 milioni) soffre di BED.

Tra i sintomi ritroviamo una bassa autostima, un tono dell’umore basso e un’immagine del proprio corpo fortemente negativa, con rischio di obesità e disturbi fisici correlati. I trattamenti maggiormente utilizzati per il trattamento di questo disturbo sono da sempre stati trattamenti cognitivo-comportamentali.

Da una ricerca di Goss & Allan (2010) emerge che i pazienti con bulimia nervosa trattati solo con terapia cognitivo comportamentale tendevano a non riportare nel lungo termine gli stessi benefici terapeutici che riportavano con una psicoterapia interpersonale focale.

Da questa prospettiva di integrazione tra approcci nasce il Compasssion Focus Therapy Eating (CFT-E; Kenneth and Steven, 2014), un protocollo terapeutico sviluppato specificatamente per i disturbi alimentari e che si basa sul modello della Compassion Focused Therapy.

Da qui Kelly e Carter (2015) hanno realizzato un programma noto come CFT (Compassion focused therapy)-based-self-compassion.

Cos’è la self-compassion e come può aiutare nei disturbi alimentari

Secondo la definizione di Neff, (2003) la self-compassion è un’attitudine, una modalità di regolazione per alleviare le emozioni negative. È un costrutto caratterizzato da empatia, sensibilità, calore emotivo e pazienza verso se stessi e verso le proprie azioni e sensazioni di inadeguatezza e fallimento. L’autrice distingue tre componenti fondamentali della selfcompassion la self-kindness (gentilezza verso sé stessi) in opposizione all’ipercritica, l’appartenenza alla comunità, in opposizione all’isolamento e la mindfulness- consapevolezza dei pensieri, in opposizione all’evitamento degli stessi.

Una persona compassionevole verso se stessa è quindi una persona gentile e comprensiva con sé stessa, non iper-critica. Chi fa esperienza di self-kindness percepisce il proprio valore 1 come incondizionato (Ellis,1973). Ne deriva che nonostante i fallimenti vissuti l’individuo continua a percepire di meritare amore, gioia ed affetto; presenta, inoltre, una minore tendenza alla vergogna e all’auto-giudizio e all’isolamento dagli altri. Chi fa esperienza di self-kindness è maggiormente disposto ad entrare in contatto con gli altri condividendo problemi e difficoltà attraverso il rispecchiamento (Barnard & Curry, 2011). La sofferenza e la fallibilità diventano una caratteristica della specie e non una caratteristica della propria identità. Sviluppare l’auto-compassione permette di arginare la tendenza all’isolamento (Barnard & Curry, 2011), di sviluppare una maggiore tendenza ad essere accoglienti verso i propri pensieri non lasciandosi trasportare nel vortice emotivo ad essi collegato. I pensieri e le emozioni vengono sentiti, percepiti e non giudicati, vengono altresì indagati con attenzione ed accettati (Shapiro, Astin, Bishop, & Cordova, 2005). L’auto-compassione permette di apprendere dalla condizione presente senza giudicarla, senza proiezioni nel passato o nel futuro e senza dover per forza pianificare una reazione (Kabat-Zinn, 2003).

Self-compassion nei disturbi alimentari

Secondo le ricerche di Goss (2007) i pazienti con disturbi alimentari risultano essere più ipercritici, autolesionisti e con maggiori livelli di ostilità rivolti a sé (Williams et al., 1993, 1994). L’auto-compassione sviluppa un modo unico di relazionarsi al proprio sé rispetto all’attuazione di valutazioni giudicanti ed il corrispondente desiderio di evitare l’esperienza di emozioni negative (Germer, 2009; Neff, 2003). Sviluppa strategie di regolazione emotiva adattive, basate sulla tolleranza dei propri stati emotivi negativi e l’accettazione incondizionata dell’esperienza presente (Neff, 2003; Wolever & Best, 2009). Tali strategie permettono di gestire l’interazione tra due tendenze opposte presenti soprattutto nei disturbi alimentari, da un lato la sensazione di isolamento e dall’altro la necessità di cura. Coltivando il concetto di comunità e di appartenenza si lenisce la sensazione di isolamento nella propria sofferenza e mancanza di comprensione da parte degli altri. Praticando l’auto-compassione si promuove l’idea che non si è soli e che tutti dobbiamo fare i conti con la sofferenza e le sue cause; si incrementa anche la necessità di prendersi cura di sé attraverso pensieri, comportamenti gentili e compassionevoli (Bluth & Eisenlohr-Moul; 2017).

La self-compassion permette di regolare le emozioni, andando a lavorare indirettamente sulla gravità del disturbo BED aumentando la tolleranza delle emozioni più difficili e l’accettazione di tutte le caratteristiche del sé.

Un contesto chiave, ma non unico, di applicazione di questi concetti è il periodo adolescenziale. Negli adolescenti alle difficoltà di regolazione caratteriste del bing-eating, si legano fattori stressogeni aggravanti: cambiamenti psicologici legati alla maturazione cerebrale, che generano una complessizzazione del concetto di sé (Giedd, 2008), e cambiamenti esterni, legati al gruppo famiglia, fino a quel momento risorsa di regolazione 2 emotiva, a cui si sostituisce il gruppo dei pari. Da questi cambiamenti derivano modificazione nel modo di relazionarsi a sé e agli altri, andando anche a ridefinire il proprio ruolo nei due gruppi (Erikson, 1968).

Le risorse interne ed esterne di regolazione sono messe quindi in crisi nell’adolescenza e l’auto-compassione sembra essere un buon fattore di protezione. In questo senso permette la regolazione delle risorse interne (regolazione dei pensieri e stati emotivi in cambiamento; Kabat-Zinn, 1994; Neff, 2003), e lo sviluppo della consapevolezza di essere meritevoli di benevolenza e poter ricevere sostegno da amici e\o familiari, non che da sé stessi (Barry, Loflin, & Doucette, 2015; Bluth & Blanton, 2015; Cunha, Xavier, & Castilho, 2016; Galla, 2016; Jativa & Cerezo, 2014).

Tra le emozioni maggiormente studiate nell’ambito della self-compassion c’è la vergogna, che è uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo della self-compassione .

La vergogna è soprattuto generata dal confronto sociale legato all’apparenza fisica, comportamento ed emozioni (Gilbert, 1998, 2002; Power & Dalgleish, 1997).

La CFT distingue proprio tra vergogna esterna e vergogna interna. La prima si ha quando l’attenzione è focalizzata nella mente dell’altro e quindi le strategie di cooping dipendo dalle relazioni sociali. La vergogna interna fa riferimento alla focalizzazione dell’attenzione su sé stessi e quindi le strategie di coping dipendono dalla regolazione degli stati interni (Allan, Gilbert, & Goss, 1994; Gilbert, 1998, 2002, 2007; Goss, Gilbert, & Allan, 1994). Le radici di questa emozione sono profonde e insite nei meccanismi evolutivi dei soggetti. Bryant-Waugh and Piepenstock (2008) mostrano come nella maggior parte dei casi siano le relazioni infantili, soprattutto legate ai momenti dei pasti a determinare un disturbo nelle età successive. Una grande percentuale di soggetti affetti da un disturbo alimentare presenta una storia familiare di disturbi alimentari. In base all’età di sviluppo i soggetti possono presentare sintomi e modalità di espressione del disturbo differenti. Nel caso delle età più precoci si parla di feeding-disorder o disturbi della nutrizione (Bryant-Waugh and Piepenstock 2008). A differenza dei disturbi alimentari, il feeling-disorder va inteso in una sfera relazionale in quanto il bambino non è ancora autonomo rispetto ai comportamenti alimentari; di contro il disturbo alimentare inquadra invece una cornice maggiormente individuale e legata a stati di sofferenza, disagio e vergogna più profondi (Bryant-Waugh and Piepenstock, 2008).

Articolo a cura di S. Rotondo e R. Lelli 2023

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