Il multiculturalismo

Un’affermazione assai ricorrente, sia nel linguaggio dei mass-media che nella letteratura scientifica, è che le società contemporanee sono sempre più “società multiculturali”; del resto, da qualche decennio, anche la dottrina penalistica ha cominciato a confrontarsi con le tematiche connesse (appunto) alla pluralità culturale delle società contemporanee, elaborando a tal proposito anche nuovi ed appositi concetti, quali “difesa culturale” (cultural defense) e “reato culturale” (o culturalmente motivato) . Almeno in Italia, poi, una forte accelerazione al dibattito su siffatte tematiche è stata impressa con la Legge n. 7/2006, ossia mediante norme ad hoc per punire le c.d. “mutilazioni genitali femminili”, le quali – a detta di molti – costituiscono un chiaro esempio di reato culturalmente motivato. Tuttavia, i predetti concetti di “difesa culturale” e di “reato culturale” possono essere più facilmente compresi dando una definizione al concetto di “cultura”.

cultura-3La definizione di “cultura

Il termine “cultura” é notoriamente compatibile con più accezioni, ad esempio, riferendosi all’insieme delle consuetudini, dei punti di vista, dell’ethos di un gruppo o di un’associazione; ciò nonostante, si potrebbe assumere il vocabolo de quo pure in un’accezione più ampia: ad esempio, la cultura occidentale contrapposta a quella orientale; la cultura della civiltà industriale contrapposta a quella propria della civiltà rurale. Ad ogni buon conto, “cultura” é sinonimo di <<nazione>> o <<popolo>> e designa una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, destinata tanto ad occupare un determinato territorio, quanto a condividere una lingua ed una storia distinte; conseguentemente, uno Stato sarà considerato “multiculturale” se i suoi membri sono emigrati e/o appartengono a diverse nazioni.

Il citato fenomeno delle “mutilazioni genitali femminili

Poiché le c.d. “mutilazioni genitali femminili” offendono alcuni diritti fondamentali della donna, quali la sua integrità fisica e – nella misura in cui costituiscono uno strumento di controllo della sessualità femminile – la sua dignità, esse – oltre ad essere state solennemente condannate in numerosi atti internazionali – risultano penalmente rilevanti in tutti i Paesi europei (fatta salva, naturalmente, nei consueti limiti in cui è ammissibile, l’eventuale rilevanza scriminante del consenso della donna che ad esse  liberamente e consapevolmente si sottoponesse). Orbene, la scelta di adottare un’“apposita” legge incriminatrice è stata compiuta, per la prima volta, dalla Svezia (01 luglio 1982 [modificata nel 1998 e nel 1999]), seguita dal Regno Unito con il Prohibition of Female Circumcision Act del 16 luglio 1985 (successivamente aggiornato con il Female Genital Mutilation Act del 30 ottobre 2003). A Svezia e Regno Unito sono – altresì – seguite la Norvegia (con la Legge n. 74 del 15 dicembre 1995) e la Spagna (con la Ley orgànica 11/2003 del 29 settembre 2003). In ogni caso e, in ossequio a quanto già preliminarmente precisato, anche l’Italia con la Legge 09 gennaio 2006, n. 7 (contenente “Disposizioni concernenti la prevenzione ed il divieto di pratiche di mutilazione genitale femminile) ha scelto di adottare una norma incriminatrice ad hoc: l’articolo 9 di detta Legge, infatti, ha introdotto nel codice penale italiano due nuove figure di reato, ossia le “mutilazioni genitali” (articolo 583-bis c.p.) e le “lesioni genitali” (articolo 583–bis, comma 2, c.p.). Nello specifico, l’aspetto che maggiormente colpisce leggendo le nuove disposizioni penalistiche è – dunque – il loro regime sanzionatorio; in effetti, con l’articolo 583-bis c.p. le pratiche di mutilazione genitale femminile sono oggi punite con pene tendenzialmente più gravi di quelle che sarebbero altrimenti derivate dall’applicazione degli articoli 582 e 583 c.p. (che puniscono le lesioni gravi e quelle gravissime). Se è, vero, infatti, che le “lesioni genitali” di cui all’articolo 583-bis, comma 2, c.p. presentano la stessa cornice edittale delle lesioni personali gravi ex articolo 583, comma 1, c.p. (da tre a sette anni di reclusione), e che le “mutilazioni genitali” di cui all’articolo 583-bis, comma 1, c.p. sono munite di una cornice edittale (da quattro a dodici anni di reclusione) il cui massimo è uguale ma il cui minimo è inferiore rispetto a quello delle lesioni personali gravissime di cui all’articolo 583, comma 2, c.p., occorre – tuttavia – notare quanto segue: 1)che la pena delle nuove figure di reato il più delle volte potrà subire l’aumento in misure fissa di un terzo previsto dall’articolo 583-bis, comma 3, c.p. per il caso, frequente nella prassi, che il fatto sia commesso a danno di un minore; 2)che i commi 1 e 2 dell’articolo 583-bis c.p. descrivono reati autonomi che, in quanto tali, sono sottratti al meccanismo del bilanciamento tra circostanze di cui all’articolo 69 c.p., per contro sempre possibile nell’ipotesi delle lesioni personali gravi e gravissime di cui al più volte menzionato articolo 583 c.p. (che, come noto, costituiscono circostanze aggravanti delle lesioni personali di cui all’articolo 582 c.p.). Giova, inoltre, far rilevare che – oltre alla rigorosa pena principale – l’articolo 583-ter c.p. (anch’esso introdotto dalla Legge n.7/2006) “rincara la dose”, comminando la pena accessoria dell’interdizione dalla professione qualora il reato sia stato commesso da un sanitario, nei cui confronti é pure imposta la comunicazione della sentenza di condanna all’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri. L’asprezza sanzionatoria, però, non si ferma qui, poiché la novella del 2006  ha, altresì, previsto la responsabilità amministrativa da reato a carico dell’ente  (clinica od ospedale presso cui il colpevole, medico od altro sanitario, abbia praticato uno o più interventi di mutilazione genitale femminile).

MARIA CRISTINA CAMPAGNOLI 
Avvocato, Cultrice di Istituzioni di Diritto Privato Università di Pavia e Cattolica di Milano